Le origini di “Per un pugno di dollari”: Sergio Leone racconta

Per un pugno di dollari

Il 3 Gennaio 1929 nasceva Sergio Leone. Il regista, sceneggiatore e produttore romano è oggi riconosciuto come un’icona del cinema italiano e internazionale. Con soli sette film all’attivo, Leone ha dettato nuove vette artistiche nel peplum, nel dramma ma, soprattutto, nel western: un genere che ha rinvigorito (insieme a Peckinpah) negli anni ’60 dopo che l’epopea americana di grandi maestri quali Ford, Sturges e Hawks volgeva oramai al termine.

Nel 1985, per il libro “Il Cinema Western” di Gianni Di Claudio (Libreria Universitaria Editrice, Chieti), Leone curò l’introduzione parlando dei suoi lavori e del significato che per lui rappresentarono (l’edizione integrale era inclusa in un libro di Diego Gabutti del 1984, che venne realizzato dopo l’uscita di C’era una volta in America). Qui di seguito ne riporto un breve estratto dove Sergio si sofferma su come nacque Per un pugno di dollari: in poche righe entriamo nel mito.

«Amavo teneramente il western perché aveva rallegrato la mia giovinezza e perché incarnava il mito americano senza ombre né sbavature, ma nessun produttore pareva disposto a finanziare i miei amori di gioventù. Avevo visto quel meraviglioso film di Kurosawa, La sfida del Samurai, e pensavo che sarebbe stato possibile trasformarlo in un magnifico western.
Aspettavo, dunque, la mia occasione. Cominciavo a intravvederla ed a nutrire le prime speranze verso il 1962, quando gli italiani presero a produrre questi pseudowestern abominevoli, che uscivano soltanto in provincia, nelle sale di quarta serie.
Poi, una sera, mi chiamarono Papi e Colombo della Jolly Film. Domandarono se, per caso, non avrei gradito girare un western. Quei film, dissi, con i cavalli e le pistole? Uno di quelli, sì. Dovevo aver parlato della mia idea per un western almeno tre o quattro volte anche con loro.
Scrissi la sceneggiatura con Duccio Tessari, al quale continuavo a ripetere che dovevamo ispirarci all’Iliade di Omero, perché quella era l’origine di tutto, del western come della storia umana. Prendi Mezzogiorno di fuoco, gli dicevo. Cos’è Gary Cooper, nella parte dello sceriffo, solo contro tutti, se non Ettore assediato? Lui annuiva sempre. Considero tuttora Per un pugno di dollari come un modello di sceneggiatura. La Jolly Film, in quel periodo, stava producendo un altro western, Le pistole non discutono di Mario Caiano. Per un pugno di dollari, dal punto di vista della Jolly Film, era la pellicola di seconda scelta. Un film di ripiego.»


«All’inizio, quando la sceneggiatura fu pronta, mi venne in mente di scritturare James Coburn. Quel giovanotto asciutto, svelto di mano e silenzioso, che ricordavo di aver ammirato ne I Magnifici Sette e ne La Grande Fuga, entrambi di Sturges, mi sembrava perfetto nel ruolo del misterioso bounty killer.
Proposi anche Henry Fonda, in un momento di megalomania, ma questo era pretendere cento volte troppo, così dovetti ripiegare su qualcuno che non costasse più di quindicimila dollari e che avesse la faccia giusta almeno quanto Fonda o Coburn. Non era facile trovare un animale tanto raro. L’avarizia della Jolly Film, insomma, fu la pietra sulla quale Clint Eastwood edificò la chiesa del suo successo.
Non avevo mai sentito nominare Clint, nessuno aveva mai sentito parlare di lui. Trovai quest’unicorno sfogliando il solito annuario degli attori. Clint era un ex maestro di nuoto che recitava, all’epoca, in un serial western televisivo (Rawhide, ndr) come spalla della spalla della spalla.
Dovetti faticare, poi, per convincere la produzione ad accettare Gian Maria Volonté nella parte di Ramòn. Sapeva essere più malvagio, pazzo e violento di chiunque altro a Cinecittà. Solo Klaus Kinski, attore di razza, che scritturai un anno più tardi per il mio secondo western, Per qualche dollaro in più, poteva essere più pazzo, malvagio e violento di lui.»


«Scolpimmo il film, in ogni modo. Devo dire che ci divertimmo moltissimo e, ciò che non guasta, ebbi anche modo, finalmente, di sperimentare certe tecniche di ripresa, certe invenzioni formali, che non avevo mai potuto sfruttare prima di allora. Firmai Per un pugno di dollari come Bob Robertson, cioè Roberto figlio di Roberto. Era un omaggio a mio padre.
Il film funzionava perfettamente, e presto l’avrebbe dimostrato. Non che ne prevedessi il successo, ma sentivo il film come mio: Per un pugno di dollari era la mia prima opera personale, in tutti i sensi.
Ma Papi e Colombo, invece di licenziarmi cum magna laude, non furono entusiasti quando videro il film montato e missato. Mostrarono Per un pugno di dollari al distributore Giovanni Amati, vero e proprio ras delle sale romane, e questi sentenziò che roba del genere poteva restare in cartellone, ma al massimo per due giorni al “Galleria”. Il “Galleria”, naturalmente, era il cinema più infimo di Roma.
Avevo detto alla Jolly Film di pagare i diritti a Kurosawa, costavano pochissimo, appena diecimila dollari. Ma la Jolly Film tentò il colpo e, pensando ai due giorni al “Galleria”, sentiti quei consiglieri dallo sguardo d’aquila, fece finta di niente, Kurosawa, a loro parere, non sarebbe mai venuto a sapere che un oscuro regista italiano, giovanissimo di età e di curriculum, aveva tratto un western dalla sua Sfida del Samurai. Se ne accorse, invece, e alla produzione di Per un pugno di dollari, troppo furba per lui, toccò pagargli miliardi di penale…»

Pubblicato da Giuseppe Causarano

Laureando in Storia, politica e relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Catania e giornalista cinematografico presso diversi siti e testate italiane, mi dedico da sempre alle mie più grandi passioni, il Cinema e la Musica (e in particolare le colonne sonore), che rappresentano i miei punti di riferimento personali. Tra i miei interessi anche i principali eventi internazionali dell'attualità, dello spettacolo, dello sport (soprattutto motori, calcio e ciclismo) e della cultura in generale.

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