Oscar 2020, il trionfo di Parasite e la svolta dell’Academy. Forse

Oscars

Che dalle parti dell’Academy si stesse preparando qualcosa di davvero significativo lo si era intuito. Per la prima volta, un’opera sudcoreana avrebbe potuto vincere dei premi di rilievo e non soltanto la “solita” statuetta al miglior film straniero. Certo è, però, che il risultato finale della cerimonia degli Oscar 2020 ha stravolto ogni previsione: Parasite ha sbancato Hollywood.

Gli Oscar che Bong Joon-ho teneva con sé alla fine dell’evento brillavano di luce propria. Miglior Film, Miglior Regia, Miglior sceneggiatura originale e, ovviamente, il già citato Miglior Film straniero che però, da questa edizione, ha assunto la dicitura di Miglior Film Internazionale. Un trionfo su tutta la linea: per la prima volta un’opera interamente non statunitense e nemmeno recitata in inglese (tutta o in parte) ha conquistato il Dolby Theatre di Los Angeles. Parasite partiva però con una Palma d’oro già in archivio, conquistata a Cannes la scorsa primavera e, inoltre, aveva partecipato a numerosi festival statunitensi in autunno per poi arrivare nelle sale americane a inizio novembre (in contemporanea con l’Italia) incassando oltre 35 milioni di Dollari (fonte Imdb). Tutt’altro che un film minore, insomma: oltretutto era tornato nuovamente nelle sale internazionali in vista degli Oscar (e lo stesso accadrà nel nostro Paese).

Merito dunque alla determinazione di Bong Joon-ho (già conosciuto tra Europa e USA grazie ai precedenti Snowpiercer e Okja) e delle cinque case di produzione del film, che hanno fatto conoscere e apprezzare oltreoceano la loro pellicola. Sono finiti i tempi in cui autori semi sconosciuti varcavano le porte degli Oscar e vincevano a sorpresa: la globalizzazione del cinema apre possibilità concrete per tutti e, unendo ad esse film di qualità, si può davvero sognare.

Il cast di Parasite

A dire il vero, però, se non per una certa emozione durante il discorso di ringraziamento per il premio alla regia (non è che battere Martin Scorsese, Quentin Tarantino e Sam Mendes sia una cosa da tutti i giorni) è sembrato che Bong Joon-ho accogliesse ciascun Oscar con consapevolezza, più che con stupore. È soltanto una sensazione: forse per un carattere che domina l’esplosività emotiva o forse perché davvero incredulo, Bong sembrava al termine di una cavalcata quasi dovuta, più che un autore che stava scrivendo la storia dei premi. In particolare durante la consegna della statuetta al miglior film, né lui né il cast riuscivano a trasmettere la gioia per il momento epocale che avevano appena scritto. Forse travolti da tutto, oppure perfettamente consci di quello che avrebbero potuto festeggiare a cerimonia conclusa.

Eppure, a parere di chi vi scrive, Parasite non è esente da difetti. Ne ho dibattuto più volte e magari vi ritorneremo prossimamente con un articolo di approfondimento. Senza spoilerare alcunché, il film racconta di una guerra tra poveri a spese dei ricchi, narrando uno spaccato sociale di strettissima attualità, in Sud Corea come in altre parti del Mondo. Questo per estrema semplificazione, ma la sceneggiatura nasconde tante sottotrame e messaggi da interpretare, oltre a svilupparsi su più piani (fisicamente e non soltanto). Però, la svolta da commedia nera a thriller, il significato di fondo dell’opera e la gestione di alcuni personaggi sono punti sui quali occorrerebbe riflettere più a lungo. E sono forse gli aspetti meno riusciti di un film comunque importantissimo, che ha come punto di forza proprio la regia straordinaria di Bong, oltre a un cast azzeccato, scenografie integrate con la trama (sono una fondamentale parte attiva) e alcuni momenti visivamente eccellenti (pensiamo alla sequenza dell’alluvione).

L’idea è che l’Academy cercasse un film con il quale imprimere una svolta e Parasite le sia venuto incontro. Anche senza scendere in dietrologia spicciola o invocare alcuno degli ottomila membri dell’A.M.P.A.S., diciamo che l’Academy di recente ha combinato una serie di disastri dai quali era difficile uscire con classe: pensiamo all’affaire Moonlight/La La Land o a premi quasi inspiegabili dati a opere già nel dimenticatoio, scontentando critica e pubblico.
Così, un film già idolatrato da molti, benedetto da Cannes, capace di farsi preferire a film che in altri tempi avrebbero fatto incetta di statuette, ha permesso agli Oscar di valorizzare il cinema asiatico, rompere gli schemi e lanciare un messaggio di cambiamento che da tempo gli si chiedeva. Prima di perdere del tutto credibilità e aprire alle novità che il cinema internazionale propone da qualche anno, l’Academy ha preferito stabilire le regole del gioco, senza farsele imporre da altri. Ha dunque trionfato il vero cinema? Non illudiamoci: nessuno fa niente per caso, ancora meno i vertici degli Oscar, che potrebbero aver aperto al nuovo soltanto per intercettare un modello narrativo di cui il panorama statunitense sembra ancora alla ricerca.

Bong Joon-ho e Han Jin-won

Parasite, infatti, non è un film arrivato totalmente a sorpresa: Bong Joon-ho ha già lavorato con artisti del calibro di Ed Harris, Tilda Swinton, Chris Evans, Lily Collins e Paul Dano; ha frequentato più volte i Festival importanti e si era già fatto conoscere dal pubblico europeo e statunitense; e sa esattamente come rivolgersi a una platea più ampia di quella coreana. Non trascuriamo inoltre il fatto che la Sud Corea è, per rapporti consolidati e un’estrema evoluzione civile, il più “occidentale” dei Paesi asiatici. Insomma, esso non è un film orientale duro e puro, di quelli che ai Festival si grida al capolavoro nella loro durata di oltre quattro ore e poi escono in tre sale in tutta Italia. Parasite è, piuttosto, un film dalla vocazione internazionale nel senso più ampio: una riflessione sociale che si coniuga con il dibattito pubblico comune ad europei e americani, specialmente nell’epoca trumpiana. La struttura dell’opera è secondaria rispetto alla portata complessiva del film stesso e ciò che mostra, e l’Academy ha colto l’opportunità: se nessuno sa raccontare la società dei “primi” e degli “ultimi” al tempo dei social e della disparità che si allarga, chi meglio di un autore coraggioso come Bong Joon-ho? Così, ecco che il cerchio si chiude: non è tornato a vincere il cinema dei folli e dei sognatori, ma la riduzione narrativa migliore della realtà che questa stagione, e forse gli ultimi anni, hanno proposto.

Anche perché, sempre secondo il mio parere, è difficile considerare Parasite superiore, nei vari aspetti cinematografici, rispetto allo straordinario prodigio tecnico rappresentato dal 1917 di Sam Mendes; rispetto alle emozioni che suscitano Jojo Rabbit di Taika Waititi (Oscar per la miglior sceneggiatura adattata), Marriage Story di Noah Baumbach e Little Women della bravissima Greta Gerwig; rispetto alla potenza drammatica del Joker di Todd Phillips, incarnata dal sontuoso Joaquin Phoenix (Oscar al miglior attore protagonista); rispetto, infine, all’America di fine anni ’60 messa in scena dal genio di Quentin Tarantino e dal cast guidato da Leonardo DiCaprio, dal nuovo Premio Oscar Brad Pitt e da Margot Robbie in Once Upon A Time… In Hollywood. E potremmo ancora citare lo spettacolare Ford v Ferrari di James Mangold e soprattutto lo sconfitto della serata, il crepuscolare The Irishman di Martin Scorsese (dieci nomination, nessuna affermazione). Un’annata cinematografica straordinaria e difficilmente ripetibile a breve, dalla quale non potrà essere ricordato solo Parasite, ma tutte le opere che l’hanno contraddistinta.

Joaquin Phoenix

Esse sono la vera risorsa dalla quale l’Academy dovrebbe ripartire, dopo tanto tempo nel quale sembrava aver dimenticato la meraviglia del cinema. Non basta un record a fare primavera, ma starà agli Oscar dimostrare che qualcosa è davvero cambiato, non solo per opportunismo sensazionalistico o per cavalcare… la tempesta perfetta.

Hildur Guðnadóttir

92th Academy Awards, Winners’ List

Miglior Film
PARASITE

Miglior attore protagonista
Joaquin Phoenix – JOKER

Miglior attrice protagonista
Renée Zellweger – JUDY

Miglior attore non protagonista
Brad Pitt – ONCE UPON A TIME…IN HOLLYWOOD

Miglior attrice non protagonista
Laura Dern – MARRIAGE STORY

Miglior Film d’animazione
TOY STORY 4

Miglior Fotografia
1917 – Roger Deakins

Migliori Costumi
LITTLE WOMEN – Jacqueline Durran

Miglior Regia
PARASITE – Bong Joon Ho

Miglior Documentario
AMERICAN FACTORY

Miglior Documentario Cortometraggio
LEARNING TO SKATEBOARD IN A WARZONE (IF YOU’RE A GIRL)

Miglior Montaggio
FORD V FERRARI – Michael McCusker e Andrew Buckland

Miglior Film Internazionale
PARASITE (Corea del Sud)

Miglior Trucco e Acconciature
BOMBSHELL – Kazu Hiro, Anne Morgan e Vivian Baker

Miglior Colonna Sonora Originale
JOKER – Hildur Guðnadóttir

Miglior Canzone Originale
“(I’m Gonna) Love Me Again” – ROCKETMAN (Elton John & Bernie Taupin)

Miglior Scenografia
ONCE UPON A TIME…IN HOLLYWOOD – Barbara Ling, Nancy Haigh

Miglior Cortometraggio d’animazione
HAIR LOVE

Miglior Cortometraggio
THE NEIGHBORS’ WINDOW

Miglior Montaggio Sonoro
FORD V FERRARI – Donald Sylvester

Miglior Sonoro
1917 – Mark Taylor e Stuart Wilson

Migliori Effetti Visivi
1917

Miglior Sceneggiatura adattata
JOJO RABBIT – Taika Waititi

Miglior Sceneggiatura Originale
PARASITE – Bong Joon Ho & Han Jin Won

Credits: The Oscars, The Academy

Pubblicato da Giuseppe Causarano

Laureando in Storia, politica e relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Catania e giornalista cinematografico presso diversi siti e testate italiane, mi dedico da sempre alle mie più grandi passioni, il Cinema e la Musica (e in particolare le colonne sonore), che rappresentano i miei punti di riferimento personali. Tra i miei interessi anche i principali eventi internazionali dell'attualità, dello spettacolo, dello sport (soprattutto motori, calcio e ciclismo) e della cultura in generale.

5 pensieri riguardo “Oscar 2020, il trionfo di Parasite e la svolta dell’Academy. Forse

  1. Questo è esattamente il genere di articoli che prediligo e che cerco anch’io di scrivere quando parlo di cinema e televisione, senza ahimé avere la tua capacità lineare di sintesi e chiarezza comunicativa: parlo ovvero di questa tua disamina di alcune pellicole presentate agli Oscar 2020, che ha saputo andare aldilà del primo comunque necessario giudizio sullo specifico filmico (infatti, essendo il cinema una forma d’arte oltre che di intrattenimento culturale, va giudicato anzitutto nella capacità di una pellicola di trasportare le ambizioni e le intenzioni di un soggetto dallo script alla messa in scena finale), prendendo in esame anche altri aspetti che di film o di un gruppo di film, come quelli evolutivi (di storia del cinema), culturali (come registrazione delle modificazioni del gusto, del ritmo e della sintassi comunicativa) ed infine sociologici e strutturali (come rappresentazione e specchio dei cambiamenti della società). Ebbene, in tutto questo sei stato davvero esemplare.

    Straordinaria in particolare la tua felicissima intuizione su come Parasite abbia rappresentato il perfetto campione (il film è comunque bellissimo, scritto benissimo e diretto anche meglio) di Hollywood per il grande progetto di cambiamento ovvero l’idea, come hai detto, che «l’Academy cercasse un film con il quale imprimere una svolta e Parasite le sia venuto incontro».

    Molto più complessa l’analisi dei possibili/presunti difetti, perché qui si entra davvero, per ciascuno dei titoli quest’anno candidati, in una discussione su quanto necessariamente tutta la settima arte contemporanea di fattura elevata (ovvero quella slegata dalle semplici logiche di puro intrattenimento) sia di fatto consapevole del suo passato, tanto da essere quasi sempre in parte anche minima meta-cinematografica: non ci possono essere più film giudicabili davvero come dei prototipi di un nuovo modo di fare cinema, come poteva essere stato in passato con il neo-realismo o la nouvelle vague, perché oggi ogni pellicola viene scritta, fotografata, montata, diretta con la piena coscienza del valore di simili scene, simili atmosfere, simili palette di colori, così che ogni film sembra di fatto solo un nuovo capitolo di un unico immenso (ed in parte persino globalizzato) storytelling visivo: non è plagio, quindi, che parte del lavoro fatto da Phillips sulla sua direzione artistica del Joker sia andato a recuperare un certo cinema urbano alla Scorsese, ma altresì il richiamo agli occhi dello spettatore non solo cinefilo è immediato; allo stesso modo, non si può valutare un film come 1917 fingendo che non siano mai esistite nè le trincee di Paths of Glory di Kubrick o la scansione temporale narrativa di Dunkirk di Nolan, ma q1uesto non diminuisce l’enomità della portata del lavoro fatto da Mendes; stesso discorso che fu a suo tempo per lo straordinario La la land che traeva buona parte del suo significato dal passato del cinema stesso, così come per Shape of Water di Del Toro e potrei continuare con tutti gli atri titoli, perché è inevitabile che ogni film assomigli a qualcosa, foss’altro ad esempi precedenti dello stesso autore e questo vale anche per alcuni degli artisti più liberi ed indipendenti del cinema mondiale, come il da me amatissimo David Lynch.

    Tuttavia, è qui sta l’esercizio critico più difficoltoso, questa “consapevolezza storico-artistica” (che nei grandi film non è mai plagio e nemmeno banale citazione e persino di più che un semplice riferimento stilistico) non è un difetto, ma qualcosa da tenere in conto, un po’ come il razzismo strisciante presente in tanta commedia nordamericana degli anni ’50 e ’60 o in tantissimo western della golden age ovvero qualcosa da notare ma anche da superare storicizzando l’opera: il mestiere del critico è sempre più complesso e richiede un senso della misura un tempo non così indispensabile come oggi (ripenso alla stroncatura che a suo tempo Tullio Kezich fece di Elephant Man, quando lo definì un film horror debole e di cattivo gusto, opera seconda di un regista che aveva esordito con un filmaccio da quattro soldi (e parlava di Eraserhead, sic!).

    Noi su WordPress siamo fortunati che ci siano blogger come te, capaci di vedere aldilà delle tifoserie, comprendendo il valore artistico di un film anche in mezzo alla tempesta mediatica delle tifoserie e degli opinion leader che muovono i loro followers come banderuole senza intelletto.

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    1. Ti ringrazio come sempre per la stima e l’attenzione che dimostri verso di me, ed è un motivo di grande orgoglio 🙂

      Sì, credo che un evento come gli Oscar vada approfondito nella sua portata complessiva, non solo quella strettamente cinematografica. Da sempre l’Academy e i suoi membri operano scelte destinate a discutere e, anche dopo le prese di posizione degli stessi vertici dell’accademia su determinate materie di dominio pubblico, non si può non notare come dietro ogni scelta ci sia un preciso significato. Ora, scindere l’analisi delle singole opere candidate (almeno le più importanti) dal peso politico e sociale che rivestono appare sempre più difficile, ed è stata la stessa Academy a premiare film di dubbia qualità assoluta rispetto ad altri cinematograficamente più importanti. Purtroppo, ma temo per una mia disillusione nei confronti di premi come gli Oscar – che ho sempre amato, seguito, e continuerò a amarli e seguirli nonostante tutto – non credo che “Parasite” sia un rinnovato atto d’amore verso il cinema, ma anzi penso vi sia una precisa idea di rinnovamento (che magari scopriremo di qui a venire) ma soprattutto l’affermazione di un cinema non statunitense molto più ricco, forte e influente. Segno dei tempi che avanzano…

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      1. Come sta accadendo anche in campo di critica letteraria tradizionale (per non parlare del fenomeno delle case d’asta per l’arte pittorica e dei mercanti), tutto è diventato più complesso, con interessi multipli che si intrecciano, si sovrappongono, si confondono…

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  2. E infatti poi parlare di arte, e di cinema in questo caso, appare sempre più difficile. Ecco perché non riesco a festeggiare un grande film come Parasite come probabilmente meriterebbe. Ma il problema sta nella poca fiducia che ogni appassionato ha percepito da qualche tempo…

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    1. Tuttavia ci riesci benissimo, sappilo: Parasite resta un film “campione”, bellissimo ed anomalo assieme, visivamente coreano (in senso tradizionale) ma strutturalmente occidentale, non semplicemente ibridato, ma architettonicamente non orientale e questo, anche nella più pessimistica visione, lo rende apripista per altri film invece coreani in tutto e per tutto, che arriveranno in America spinti dal marketing, che magari scompariranno nel nulla, ma lasceranno qualcosa…
      Gli USA da sempre fagocitano tutto, riscrivono, triturano, appiattiscono, trasformano, ma sotto sotto cambiano se stessi, si modificano, come un animale che mangia di tutto ed in po’ cambia aspetto quando mangia una dieta diversa dal suo solito…
      Un tempo negli USA avrebbero già messo in cantiere un remake statunitense di un film così (come fatto mille altre con versioni americane di pellicole asiatiche, con esiti altalenanti, da Spike Lee a Scorsese a Verbinski), mentre adesso si parla con insistenza di una serie televisiva della HBO…

      Infinito storytelling, in un circo mediatico di produzione quasi barbiturico, dove il mercato cinese determina nuove produzioni e scelte di casting, dove si fanno remake di film che hanno fallito in patria ma che hanno avuto successo invece in Oriente, dove comunque, se l’appassionato di cinema riesce a mantenere la rotta in mezzo alla tempesta, per lui la vera bellezza si scorge e si scopre lo stesso…
      Come in una delle righe di dialogo più abusate nei film nordamericani, quando il protagonista, interrogato su cosa stia capitando a lui ed alle persone che lo circondano, risponde sempre «È complicato…»

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